“Gli aspetti di cose per noi importantissime sono nascosti a causa della loro semplicità e familiarità. Si è incapaci di notare qualcosa perché la si ha sempre davanti agli occhi. I veri fondamenti di un’indagine non colpiscono affatto l’uomo che la compie.”
WITTGENSTEIN
Le regole sociali implicite sono talmente chiare alla maggior parte della popolazione che non hanno bisogno di essere indicate, mentre per le persone nello Spettro, in diversa misura, possono non essere chiare nemmeno se esplicitate. La difficoltà a comprendere le sfumature affettive, le emozioni e i desideri che costituiscono la complessità del mondo sociale abbiamo visto essere il nucleo sintomatologico fondamentale dei Disturbi dello Spettro dell’autismo. Ma di che natura sia l’incapacità a comprendere l’altro è un’indagine tutt’ora problematica che si alimenta di posizioni teoretiche spesso inconciliabili. L’argomento classico in psicologia cognitiva fa riferimento alla nota teoria della “Teoria della mente” (Leslie, Baron Cohen 1986) : conosciamo gli altri per mezzo di un processo di natura inferenziale e deduttiva, adottando un atteggiamento teoretico, scientifico e per così dire “freddo”: gli stati mentali (sia epistemici che motivazionali) sono soltanto inferibili, postulabili; una rappresentazione interna dell’altro che si struttura di pari passo alla maturazione cognitiva. Una concezione simile affonda le sue radici nella netta separazione –cartesiana- tra coscienza individuale e mondo: l’alter-ego diviene l’esterno inconoscibile e “dubitabile”, sondabile solo mediante l’esercizio di una ragione solitaria.
L’analisi dell’esperienza palesa da subito come il fondamento della conoscenza abbia fin dall’inizio un carattere intersoggettivo e non ci sia un momento in cui la mia individualità non sia rivestita di quel carattere di socialità e condivisione che è così profondamente umano. Le critiche a questo paradigma, sorprendentemente, non giungono solamente dall’analisi filosofica e fenomenologica, bensì dalla medesima ricerca empirica. Non ci soffermeremo in questa sede al contributo fondamentale che la scoperta dei neuroni specchio ad opera del gruppo di Rizzolatti (2005) ha fornito, portando alla luce una forma di “empatia” più incarnata ed informata dalla situazione contestuale in atto, rispetto alla freddezza e al cartesianesimo che impronta l’approccio mentalistico.
Intendiamo riferirci a dirette evidenze derivanti da esperimenti che hanno smentito il postulato stesso che i soggetti autistici non possedessero la teoria della mente: i soggetti Asperger con intelligenza nella norma tendenzialmente non falliscono nei compiti di falsa credenza di primo e di secondo ordine! Negli adulti con autismo lieve, infatti, si è notata una stretta correlazione tra capacità di superare i test classici di ToM e QI verbale, indipendentemente dalle abilità sociali nella vita reale e molti partecipanti si sono rivelati in grado di superare i test di laboratorio al pari delle persone neurotipiche (Scheeren et al., 2013); infatti, il 15% – 60% dei soggetti nello spettro superano i test delle false credenze ; gli adulti con autismo al alto funzionamento o con SA superano il test attribuiendo stati mentali, come credenze e desideri agli altri in compiti espliciti e verbali (Bowler, 1992).
Questi studi dimostrano che, al contrario di quello che concettualizzano le teorie classiche di psicologia cognitiva, non si tratta di un problema razionale; non c’è alcuna “pecca” nella capacità logica di inferenza. La deduzione è uno dei processi fondamentali che l’Asperger ad alto funzionamento utilizza, insieme ad altri algoritmi costruiti nel tempo, per conoscere la realtà e tentare di regolare la propria vita. Anzi, la razionalità è eccessiva, come vedremo, invade il campo; poiché deve compensare un’assenza fondamentale: la pre-comprensione intuitiva e naturale delle cose, l’accordatura emotiva con la situazione in corso.
Alcuni Asperger si comportano come dei veri e propri scienziati, investigatori, antropologi, mentre si muovono nel mondo: molti raccordi razionali li aiutano a desteggiarsi nel “ginepraio delle regole sociali”: come il bambino concettulizzato della ToM conosce gli altri con il puro esercizio della ragione: quindi non li conosce affatto! È come se fosse ben equipaggiato per risolvere un problema che va risolto con tutt’altri mezzi. Come afferma efficacemente Temple Grandin, in una metafora ormai paradigmatica, sono come antropologi su Marte: conoscitori dell’umano in un posto dove manca l’oggetto di studio. A volte Temple si chiedeva se gli altri bambini fossero tutti telepatici: c’era tra loro qualcosa di rapido, sottile, in continuo mutamento: uno scambio di significati, una contrattazione, una velocità di comprensione per lei eccezionale. Oggi Temple conosce la sua difficoltà, ne è intellettualmente consapevole e fa del suo meglio per compensare, investendo sforzi ed energie di calcolo immense per sviscerare problemi che gli altri comprendono senza nemmeno bisogno di pensare.
La difficoltà a connettersi con gli altri e a comprenderli, la perenne sensazione di essere “fuori sincronia” e il senso di solitudine, fanno sentire molte di queste persone “Alieni intrappolati in un corpo umano” (Moscone e Vagni, 2012a).
“Non è un problema del mio pensiero, il mio pensiero è lucido, è il cervello ancestrale, quello che controlla le emozioni”
Luisa di Biagio, Asperger
Ma in che senso il problema riguarda le emozioni?
Per comprendere la natura dello scacco esperienziale ed esistenziale che caratterizza l’Asperger ci avvaleremo dell’interpretazione fenomenologica di un concetto coniato da Blankenburg alla fine degli anni ’60 nell’analisi delle schizofrenie pauci-sintomatiche e delle fasi prodromiche delle psicosi deliranti. Con alcune differenze e tenendo presente le specificità eziopatogenetiche di queste realtà cliniche al confronto con gli autismi ad alto funzionamento, ci accorgiamo di come molte sfumature fenomenologiche siano sovrapponibili ed ampliabili anche a diversi tipi di psicopatologia; il fenomeno in oggetto è chiamato “evidenza naturale”, qualcosa che può essere spiegato solo quando si smette di esperirla, che riguarda l’alterazione basilare dell’essere-nel-mondo dell’esserci. Gli stati d’animo non sono infatti contenuti di coscienza privi di un aggancio al mondo, non ci chiudono in noi stessi allontanandoci dalle cose, ma sono esperiti come atmosfere diffuse che influenzano in profondità la maniera stessa in cui il mondo ci si appalesa.
Come nota Heidegger, sono parte della struttura intenzionale delle esperienze, forme fondamentali di apertura al mondo nella sua totalità. Il mondo-della-vita è in questo senso sfondo, orizzonte non tematico di «un’esperienza possibile di cose», entro il quale si esplicano le nostre intenzionalità e si collocano le nostre azioni:
L’emozione, pertanto, non è nella testa del soggetto, ma nell’incontro con il mondo. Scrive Annalisa Caputo:
“(…) ogni nuova emozione è un’accordatura nuova tra uomo e mondo, e ogni nuovo pensiero ed ogni nuova azione non può che seguire questo variare, (…) non può che sostenersi di queste accordature affettive.”
Non soltanto gli stati emotivi e sensoriali hanno proprietà fenomeniche, ovvero condizionano i modi fondamentali di fare esperienza, ma ogni esperienza percettiva è informata dalle valenze, dai sentimenti, dalla storia personale e dall’interesse: anche gli stati di coscienza, come essere situati nei modi dell’attesa o del dubbio, fanno un effetto diverso e corrispondono ad una differente apertura di mondo.
La situazione affettiva (Befindlichkeit) cioè il modo originario di trovarsi e sentirsi nella realtà è “una specie di prima prensione globale del mondo” che fonda in qualche modo la sua comprensione”.
L’essere emotivamente intonati con il mondo, avere il “rimando” emozionale non è una qualità accessoria dell’esperienza, ma la sua fondazione: la comprensione emotivamente situata permette di interessarci, di fidarci, di possedere il mondo e le sue regole, di intuire la posizione esistenziale dell’altro ed essergli vicino: tutto ciò, in maniera totalmente pre-logica. L’esercizio della ragione in termini di algoritmi, regole sovraordinate, schemi di riferimento e routine interverrebbe nell’esperienza i maniera massiccia solo laddove mancasse questa qualità fondamentale della connessione. La ragione poco “informata” emotivamente, però, non può tendere che asintoticamente alla comprensione genuina!
“Ricordo chiaramente il momento in cui seppi, la sensazione era indiscutibilmente quella, che la realtà era altrove. Io ero troppo diversa da tutto e da tutti. O meglio: tutti e tutto erano troppo diversi da me! Non sapevo con esattezza quale fosse la verità, ma sapevo che c’era. Nulla mi apparteneva e io non appartenevo al mondo in cui mi ero ritrovata. (…) La prima alternativa che avevo ipotizzato era molto vivida ma piuttosto angosciante: in base a quel ragionamento, io ero un sogno.”
Luisa di Biagio, Asperger
Possiamo ora comprendere come le fantasie, fino ad arrivare al franco delirio siano possibili soltanto dove manchi la costituzione ontologica dell’esserci, l’aggancio pre-riflessivo all’esistenza, quello che Minkowski efficacemente definisce “il contatto vitale con la realtà”, che possiamo affiancare concettualmente all’evidenza naturale di cui parla Blankenburg, un vibrare unisono di Io-mondo-altro che è la condizione fondamentale dell’agire e del patire.
Blankenburg, in realtà, fa esplicito riferimento alla fenomenologia dell’autismo, scrivendo a proposito del crollo della costituzione trascendentale del Sé e del Mondo, ovvero all’origine dei presupposti dell’esperienza comune, affermando che l’analisi dell’evidenza naturale consente di cogliere in statu nascendi la radice dei disturbi che riguardano il rapporto profondo con la realtà mondana. In altre parole, quelle patologie che manifestano una difettualità dell’ipseità.
L’autismo come povertà del contatto con il mondo che già Minkowski descrisse sembra potersi avvicinare in misura maggiore rispetto alle teorie razionaliste della moderna social cognition a “quell’assenza di fondamento basale che Blankenburg esplora come perdita dell’evidenza, divenendo l’autismo nel suo significato più profondo il negativo di una cornice vuota, una cornice in cui è stato sottratto il quadro del mondo, la potenzialità del contatto, la categoria dell’essere come naturalmente situato con l’altro.”
È descritto frequentemente in letteratura, infatti, non solo l’emergere di una sintomatologia psicotica in età tardo adolescenziale o adulta in soggetti diagnosticati come Asperger, ma anche una frequente sovrapposizione e confusione diagnostica, a dimostrare come le difettualità nell’accesso al mondo nei termini di esperienza basilare delle cose possano spiegare la co-occorrenza o la trasformazione di alcune psicopatologie in altre.
AS e DOC: l’insicurezza ontologica
“Sono un Aspie. Ho imparato la teoria della probabilità e come calcolare ogni caso. Funziona. Tutto nella vita è incerto, ma sapere quanto incerto talvolta aiuta.”
Anonimo dal web
L’esempio di cui sopra è tratto da un forum on-line in cui gli utenti si fanno a vicenda alcune domande e valutano le risposte con vari gradi di soddisfazione: la domanda in questione era “Come fa qualcuno con Asperger ad affrontare le incertezze della vita?”. Come abbiamo visto, la risposta ad una diffusa atmosfera emotiva di incertezza è il ricorso alla iper-razionalizzazione. I dati della letteratura riportano una comorbilità tra l’AS e il DOC che si attesta tra il 12,5 al 17,5%27; l’esperienza clinica suggerisce anche confini diagnostici non sempre netti tra le forme lievissime di Asperger e i disturbi di personalità ossessivi. Infatti, si sono osservate alcune caratteristiche comuni che lo spettro dei disturbi ossessivo-compulsivi condivide con le forme di autismo ad alto funzionamento, come, ad esempio, l’aderenza ad un sistema impersonale di regole, l’insistenza a reiterare le medesime routine (insistence on sameness), la tendenza al perfezionismo, la presenza di interessi ristretti e stereotipati, le difficoltà nell’empatia emotiva (Baron-Cohen, Wheelwright, 1999); si sono riscontrate anche sintomatologie compulsive nei quadri autistici, come comportamenti di ordinamento compulsivo, checking e hoarding (McDougle et.al.,1995).
Dal punto di vista fenomenologico, al contatto con il paziente, mettendo per un attimo da parte il meccanismo patogenetico, si può notare un’atmosfera emotiva comune: un sostanziale stato di insicurezza ontologica, che deriva da una fondamentale alterazione del rapporto con la realtà.
Il clima emotivo è quello del dubbio, quasi, diremmo, iperbolico, che invade ogni aspetto della realtà: il dubbio è possibile solo in assenza di quel sentimento di ‘rightness’, di fiducia, di giustezza del mondo, che è prima di tutto una relazione emotiva, una simpatia. La rottura, o la mancata costituzione di una relazione simpatetica con il mondo, l’assenza dell’evidenza naturale nell’esperire di volta in volta questa o quella situazione alimenta un senso di imperfezione di jaspersiana memoria, l’impossibilità che Anna R. ci raccontava, di “lasciare le cose essere”. Questo perché l’ipseità nel suo schiudersi in azione è già parziale. Infatti:
“Nessun dubbio cartesiano può andare oltre i sensi”
Il ricorso ad un ordine stabilito, impersonale e rigido, sia nelle azioni quotidiane che nella disposizione degli spazi abitativi si configurerebbe come un baluardo a difesa dal ‘caos’ di un mondo intimamente incomprensibile o fondamentalmente nocivo.
BIBLIOGRAFIA
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