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Struttura della vita ed esperienze emozionali

 Dalle vacanze alla quarantena: riflessioni su tempo e possibilità nella vita quotidiana

“Qualcosa in noi ha voluto spalancare.
Forse, non so.

Adesso siamo a casa.”

Mariangela Gualtieri

Perché parlare di vacanze e di quarantena nel medesimo articolo? Come poter associare il terribile momento che stiamo vivendo, lo spaesamento, l’angoscia, la noia e l’incertezza con momenti che per molti sono positivi, rigeneranti? La mia riflessione vuole interrogarsi su alcuni “stati di sospensione” che incontriamo ed affrontiamo nella nostra vita, il loro significato, e il personalissimo modo che ognuno di noi esprime nell’affrontarli. Il tempo sarà il fil rouge, e, in particolar modo, il tempo articolato dalla fenomenologia, quello che si-vive.

Vacanze: e quella strana “Summertime Sadness

Per la maggior parte delle persone l’estate è sinonimo di libertà, viaggi e divertimento. Non per tutti è così. Nella pratica clinica ci si accorge che per alcune persone, i momenti di non-lavoro, in particolare le ferie estive, rappresentano incognite -di dodici ore al giorno, per sette/ quindici giorni- in cui si danza tra imperativi auto-imposti, apatia e procrastinazione.
A volte la bella stagione si accompagna a un peggioramento del tono dell’umore, scarsa proattività e voglia di fare, stanchezza, anedonia, disturbi del sonno e irrequietezza.

Si chiama SAD, “Seasonal affective disorder”, o “Disturbo affettivo stagionale”: tale disturbo è descritto nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) come Disturbo Depressivo Maggiore ricorrente con andamento stagionale.
Il freddo, la mancanza di luce solare, il grigiore, sembrano suggerire l’inverno come momento dell’anno in cui aumentano i casi di depressione. Il fenomeno del cosiddetto “Christmas blues”, l’effetto depressivo del Natale, è ormai ampiamente documentato. La variante invernale è stata correlata alla diminuzione dell’esposizione alla luce solare, che ha effetto sul chimismo della serotonina e perciò beneficia del trattamento con blandi cicli di SSRI (Thorell et al., 1999).
È però sottovalutata la sua controparte: la depressione estiva, che stando ai dati del National Alliance of Mental Illness, colpisce nei soli Stati Uniti almeno il 10% di chi soffre di SAD.

Lana del Rey, “Summertime sadness”

Norman Rosenthal (1987), psichiatra dell’Università di Georgetown, mette in evidenza l’influenza di fattori come la temperatura, il tasso di umidità e la durata dell’esposizione alla luce solare sul cervello. Di conseguenza, a cascata sono state rilevate alterazioni del ritmo sonno-veglia e disregolazione  emotiva come stati di  ansia, panico, aggressività, che aumentano all’aumentare delle temperature.

I cambiamenti nel chimismo cerebrale e nei ritmi della vita biologica non possono essere compresi come avulsi dalla cornice esistenziale che l’individuo esperisce in estate, piuttosto che in altre stagioni. In altre parole, piuttosto che chiedersi come cambia la biologia dell’organismo nell’alternanza delle stagioni, potremmo trasformare la domanda in “Che tipo di esperienza l’essere umano incontra nell’avvicendarsi delle stagioni che fanno capo al ritmo della vita, di cui l’alterazione chimico-fisica rappresenta un epifenomeno, un correlato?”.Questa consapevolezza porta a considerare, ovviamente, anche fattori psico-sociali: gli amici partono, le città si svuotano, i negozi chiudono, vengono meno gli abituali punti di riferimento.
Se poi si resta a casa da soli, aumenta ulteriormente il senso di isolamento, che stride amaramente con quell’imperativo a divertirsi che la bella stagione si porta dietro. La letteratura scientifica ha quindi da subito arricchito la comprensione del SAD, staccandosi da un piano meramente organicistico, legato al chimismo e al metabolismo del korper..

Ricordiamo che il nostro è un corpo che vive e incontra il mondo e si fa mondo, per cui la diminuzione della serotonina è la noia dell’estate, l’attesa, l’inquietudine, la stanchezza nelle braccia e nelle gambe è la voce carnale un corpo che non è catturato al laccio dalle possibilità del mondo, che ha perso la sua eccentricità e si pone come greve, incarnazione del malessere e dell’esperienza dell’impossibilità, dell’impraticabilità, allungato e senza motilità viva come le ore che ci sentiamo davanti. Perché?

La tragedia dell’essere tempo: Minkowski, Leopardi, l’attività e l’attesa.

Trovo particolarmente illuminante il contributo di Minkowski, quando cita due modalità, sfumature, nell’esperire e vivere il tempo nelle condizioni esistenziali dell’attività e dell’attesa. La vita, per il filosofo, ha una struttura in divenire proiettata verso il futuro in modo dinamico e multiforme; parla di questo fenomeno come di slancio vitale.

“è con questa progressione costante che lo slancio vitale ci porta sulle sue ali possenti sempre diritto davanti a noi, oltre la morte stessa.”

Quindi l’attività è quando l’individuo si trova immerso nei compiti della vita, nell’impegno e nel far frutto, in direzione di un obiettivo. Uno stato corredato da un senso di espansione dell’Io, ci si sente potenti e in-grado-di. L’espansione di una vita verso l’avanti, essere oltre noi stessi ma anche pienamente noi stessi. Non si deve confondere questa esperienza con gli stati maniacali, in cui si ha un senso di espansione ma un contatto con le cose superficiale, fuggevole, privo della profondità temporale dell’impegno e del progetto. L’eccitato maniaco vive nell’adesso, come una farfalla si posa su possibilità senza farle proprie e renderle possibili, in una subduzione temporale, in maniera non dissimile da quanto avviene nella depressione (Minkowski,  1935).

L’attesa

Questo giorno io lo butto via


Questo giorno io lo butto via
sparpaglio le sue ore ciondolando
guardo la pioggia fine solo stando
ferma, seduta qui al tavolino.
Lo butto come giorno che non conta
una cartaccia sporca, una buccia
niente di niente che si getta via.
Si chiama lunedì, si chiama aprile
numero ventinove, e piove piove
e sarei piena di cose da fare
per farne un giorno col suo risultato.
Ma l’ho detto. Sarà buttato, sperso
consegnato ad un ozio che non vale
se non come preghiera. Allora dire
ecco, io offro questo ciondolare
sull’altare del mondo affaccendato.
Faccio io il perno che non muove.
Il punto che sta fermo. Lo bado io
quell’immobile stato delle cose.

Edward Hopper “Sole di mattina” (1952) è l’esaltazione di una solitudine statica, dell’ineluttabilità del tempo che si ripete, giorno dopo giorno, e invade stanze ed esistenze.

La poetessa Mariangela Gualtieri si rammarica di non poter fare “un giorno con il suo risultato”, come se l’ozio e l’inazione fossero velati di senso di colpa per il non essere-utile della propria attività. Tutto ciò che non è attuazione, ma mera contemplazione ed essenza, anziché prassi, può essere vissuto come tempo buttato. Un sentimento profondamente moderno, le cui derive sconfinano in “se non è monetizzabile, non ne vale la pena.”

Offro questo ciondolare sull’altare del mondo affaccendato. Quando io sto ferma, è il mondo che mi vortica attorno; ansia, fastidio, nausea all’idea di rientrarci, senso di colpa perché non ci sono dentro. È l’esperienza spiacevole dell’attesa di cui parlava il fenomenologo: l’uomo non è fatto per contemplare, ma per farsi assorbire dalle cose del mondo, per vorticare.

Dice Minkowski:

“L’attesa primitiva è sempre dunque legata a un’intensa angoscia, è sempre attesa ansiosa. Ciò peraltro non può sorprendere perché poiché essa è una sospensione di quell’attività che è la vita stessa.”

Se nell’attività sono proteso verso l’avvenire, scagliato in direzione del futuro in un treno-proiettile, nell’attesa si vive il tempo in direzione opposta; sento il futuro avvicinarsi a me con il suo carico, schiacciarmi, incombere. Quando sono ferma, il mondo mi vortica attorno, faccio fatica a pensare di poterci saltare sopra senza farmi male; ma quando sono nel vortice, l’energia del vivere lascia brevi spazi per contemplare con desiderio le oasi di immobilità del riposo.

Non si intenda qui che l’attività sia in qualche modo moralmente o “ontologicamente” superiore all’attendere. Anche su un treno proiettile mi perdo moltissimo: il paesaggio.

Quando noi siamo in attività viviamo l’avvicinarsi delle ferie nella modalità dell’anticipazione, pre-correndo il piacere del tempo libero e della liberazione degli obblighi lavorativi. La sera del dì di festa, ci racconta Leopardi ne Il sabato del villaggio, è il momento più bello. La struttura temporale dell’esserci fa sì che noi siamo sempre in avanti, nel precorrimento piuttosto che nell’istante esperito ora. Quando stiamo meglio? Venerdì sera, la sera del dì di festa. È l’anticiparsi, il farsi-presente della vacanza di domani, il progetto di essa, la reverie ad essa connessa, il momento più alto. Il desiderio è più potente dell’esperienza, perché il futuro è sempre davanti, foschia sul presente. La tragedia e l’essenza dell’uomo è che per primo egli ha volto lo sguardo alle stelle e incominciato a desiderare (De-Sidera, a proposito delle stelle, è l’etimologia latina della parola stessa.) Abbiamo teso un arco verso il progetto di noi, qualcosa che non è qui ed ora, costruendo utensili e case per il futuro. È la natura temporale dell’esserci umano, per cui non sarà mai completamente possibile vivere un momento al parco come il nostro amico a quattro zampe, nel totale annullamento della nostra tensione dialettica passato-presente-futuro, nell’oggi assoluto, come la prospettiva della mindfulness ci augurerebbe. Difficile non comprendere le parole del poeta senza pensare alla ben nota fluttuazione timica del venerdì, sabato, domenica.

Buoni consigli, di difficile realizzazione…

Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Thomas Mann ne “la montagna incantata” (1924), descrive alla perfezione quello che molti pazienti ci raccontano circa la percezione del tempo, l’energia e l’attività dei primi giorni di vacanza e la successiva “abituazione”, le ore che divengono veloci, che scappano da sotto, perché nell’attesa il futuro, cioè il rientro dalle ferie, preme sul presente:

“I primi giorni trascorsi in una nuova località hanno un corso giovanile, cioè un procedere ampio ed energico…Poi, quando uno si acclimata, percepisce un progressivo accorciamento: chi è attaccato alla vita o, meglio, vorrebbe starle attaccato può avvertire con terrore come i giorni riprendano a farsi inconsistenti e a guizzar via: e l’ultima settimana, possiede un’inquietante rapidità e fuggevolezza.”

Queste parole possono risuonare interiormente a chiunque si fermi a considerare la propria esperienza soggettiva nei momenti di transizione tra il lavoro e le ferie, e viceversa.

Horror vacui: il bisogno di una struttura

C’è chi vive gli stati di sospensione prolungati con un sentimento che i latini descrivono benissimo: il terrore del vuoto. Abituati alla struttura produttiva della vita, quando posti innanzi a periodi di attesa, non scanditi da scadenze, doveri, incombenze e programmazioni essi si sentono persi e a confronto con la necessità di creare. La noia, che Heidegger comprende dall’etimologia tedesca del termine “tempo lungo”. Un’esistenza che non si confronta mai con la noia è un’esistenza che è fragile circa le proprie possibilità creative e creatrici. Sono interessanti le ricerche (Jain, Blais, 1999[1]) che correlano i sintomi di SAD con il tratto personologico della apertura (Openness); cosa significa apertura? La capacità di farsi coinvolgere da nuovi progetti che mi arrivano dal mondo. Ma quando questo manca, saprò fare del mio tempo una fucina altrettanto inesauribile, sebbene privata, nella dimensione personale della cura? Saprò inventarmi qualcosa per stare bene, se il mondo attorno a me si ferma e non mi chiama più, non mi offre più possibilità?


“Questo ti voglio dire
ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti
ch’era troppo furioso
il nostro fare. Stare dentro le cose.
Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora – farla fruttare.
 
Ci dovevamo fermare
e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa.
Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano
che ci potesse bloccare.”


Cape Cod Morning“, 1959

Nessun contesto storico, come l’attuale, con l’emergenza Covid-19, può essere più significativo per una riflessione di questo genere: il virus ci ha messo faccia a faccia con un forzato, angoscioso stato di attesa. Per Minkowski, non naturale, doloroso, in quando contrario all’originaria direzionalità e dinamicità dell’esistenza. Possiamo comunque imparare qualcosa da esso?

Sempre Mariangela Gualtieri (2020) si unisce a Byung Chul Han nel silenzioso grido di aiuto che sorge nel cuore delle società toccate dal capitalismo. È poetico, anche se non scientifico (ma ne siamo sicuri?), pensare che il virus sia una proprietà emergente scaturita dall’intelligenza collettiva del sistema complesso mondo, nato per rallentare dei processi che stavano distruggendo il pianeta, come le nostre esistenze, ed è questo pensiero che la poetessa abbraccia.

“E poiché questo
era desiderio tacito comune
come un inconscio volere –
forse la specie nostra ha ubbidito
slacciato le catene che tengono blindato
il nostro seme. Aperto
le fessure più segrete
e fatto entrare.
Forse per questo dopo c’è stato un salto
di specie – dal pipistrello a noi.
Qualcosa in noi ha voluto spalancare.
Forse, non so.

Adesso siamo a casa.

È portentoso quello che succede.
E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.”

Il filosofo coreano tonalizza il proprio discorso inserendolo all’interno della matrice sociologica e politica:

“Oggigiorno i pericoli non emanano dalla negatività del nemico, bensì dall’eccesso di positività che si esprime in forma di sovrapprestazione, sovrapproduzione e sovracomunicazione. La negatività del nemico non appartiene alla nostra società sconfinatamente permissiva. La repressione perpetrata dagli altri cede il passo alla depressione, lo sfruttamento esterno all’autosfruttamento volontario e all’auto–ottimizzazione. Nella società della prestazione la guerra la si fa prima di tutto a se stessi.Ora, d’improvviso, il virus irrompe in una società assai indebolita dal capitalismo globale. In reazione allo spavento, ecco che le soglie immunologiche vengono di nuovo alzate e si chiudono le frontiere. Il nemico è di nuovo tra noi[2].”

Un augurio -o forse un elogio della noia-


“E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni. “

In una delle sue poesie, la Gualtieri chiede perdono per la distrazione: per essere sempre così affaccendata da non vedere la bellezza. Questo è quello che viene perso nell’attività: non possiamo vivere di sola contemplazione, ma talvolta i nostri occhi sono troppo svelti, troppo poco meravigliati, sul mondo. Che ci sia ancora l’angoscia di morte a riportarci a noi stessi, a strapparti dal tessuto anonimo del dover-fare, per poter-essere?

L’augurio è che prima o poi impareremo ad essere vivi, piuttosto che produttivi. Quando la nebbia si diraderà e questo incubo finirà, non vi auguro di tornare alla normalità: la normalità era affanno, era distrazione, era turbine, era essere-per-fare, era oblio. La normalità era, per molti, una vita senza la noia necessaria per la scoperta della bellezza. E la bellezza è l’esserci per il gusto di esserci, è riscoprirsi uguali nel dolore, è “buttare” una giornata sull’altare dell’inadempienza, è fare un passo più vicini a noi stessi, è scoprire quanto è bello toccarsi, quanto è bello stare soli, quanto è bello lavorare, quanto é bello non farlo. Che non c’è colpa nel lasciare passare un’ora a guardare gli uccellini tra i peschi, senza doverla trasformare in fatturato. “La bellezza salverà il mondo”, ma resteremo capaci di scorgerla, una volta scagliati nuovamente nella struttura produttiva della vita, dalle dolorose e incomparabili distanze in cui ci eravamo ri-scoperti preziosamente precari?


Bibliografia

[1] Jain,U., Blais  M.A.(1999)Five-factor personality traits in patients with seasonal depression: treatment effects and comparisons with bipolar patients, Journal of Affective Disorders, Vol. 55, 1