“Lo guardai [il mio cuore] pavido e assorto
come chi sa d’esser morto;
con l’anima solo commossa
del sogno e poco della vita.”
F. Pessoa
Contemplazione
“Non so cosa ci sia là fuori -non l’ho mai scoperto- e il tanto tempo che ho trascorso dietro le tende verdi della sala da pranzo di casa non mi ha avvicinata per nulla alla verità. E per quale ragione non dovrei starmene alla finestra in questo mondo? Per quale ragione non dovrei farmi vedere?”
Claire-Louise Bennet, “Stagno” (2019)
Figure a margine -o del “biancore”–
Hikikomori[1] (引きこもり o 引き籠もり, letteralmente “stare in disparte, isolarsi”, dalle parole hiku “tirare” e komoru “ritirarsi”) è un termine giapponese usato per riferirsi a coloro che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, spesso cercando livelli estremi di isolamento e confinamento. L’identikit del giovane Hikiikomori si esprime attraverso determinate caratteristiche comportamentali e strutturali che delineano una nuova forma di categoria psicopatologica: giovane tra i 14-30 anni, di estrazione sociale medio-alta. Di solito, giovani maschi, anche se la presenza femminile pare in aumento. Essi tendono ad invertire il ritmo circadiano, trascorrono parte del tempo a chattare, leggere, giocare al computer o guardare la televisione, determinati a non rientrare nel “commercio con il mondo”. Sbaglieremmo a pensare che si tratti di un fenomeno culturalmente delimitato:nel 2012 in Italia si registrarono circa cinquanta casi, ufficialmente dichiarati, di giovani adolescenti, presi in carico come Hikikomori (L. T. Pedata, M. Interlandi, 2012), e non vi è dubbio che ad oggi il conto sia aumentato.
Per quanto riguarda la sintomatologia, Saitō (1998) definisce il ritiro sociale come il sintomo primario, che può manifestarsi attraverso varie modalità e gradi. L’auto-reclusione nella propria stanza, infatti, può durare alcuni mesi o protrarsi per anni (Aguglia, Signorelli, Pollicino, Arcidiacono, & Petralia, 2010).
I ragazzi Hikikomori presentano spesso una sintomatologia fobica, come la fobia scolastica (generalmente la prima manifestazione di ritiro sociale, che può rappresentare il primo stadio del successivo rifiuto di uscire dalla propria stanza; Zielenziger, 2006), la paura della gente e dei contatti sociali, che si sviluppa secondariamente al ritiro sociale e comporta un peggioramento del quadro clinico; l’agorafobia, con il conseguente evitamento dei luoghi in cui sarebbe difficile avere soccorso o sostegno in caso di attacco di panico o di un forte stato di ansia; terrore di contaminarsi o di entrare in contatto con sporcizia, che può evolvere in disturbo ossessivo-compulsivo (Saitō, 1998). Questi dati sono a sostegno della presenza di elementi che pertengono sia alla fenomenologia fobica, sia allo spettro ossessivo; non sono rare forme più psicotiche, in cui al ritiro sociale si allineano sintomi produttivi come ideazione paranoide, fino al franco delirio (Aguglia et al., 2010). Ciò che è evidente a livello fenomenologico è una alterazione basale del mondo in cui vivono queste persone: un mondo che viene esperito come foriero di angoscia, di male, di persone spaventanti, di sguardi giudicanti e di agguati: non è un’alterazione cognitiva, del regno della struttura razionale della mente umana, non è un bias di rapprensentazione: è mutazione profonda del contatto con la realtà, che è primario ed essenziale, e il mondo diviene un inferno da evitare. In queste forme di disagio il mondo con gli altri ha perso la sua abitabilità.
Non possono non sovvenire le caratteristiche del Disturbo Evitante di personalità così come descritto dall’attuale diagnostica categoriale (DSM-5, APA, 2013). Descritto per la prima volta da Millon (1969), che lo differenziò dalla schizoidia, in cui si osserva una indifferenza e appiattimento emotivo, il DEP è caratterizzato invece da un desiderio di interagire, ma da una dolorosa inibizione accompagnata da ansia, vergogna e timore del giudizio altrui.
Secondo alcuni autori (Procacci, Popolo, 2003) l’esperienza fondamentale dell’evitante è quella di non appartenere; l’estraneità è qualcosa di avvertito emotivamente, come se tutti gli altri condividessero mondi, ricordi e atmosfere dalle quali la persona è crudelmente esclusa, come se fosse al di fuori, senza la chiave, con un desiderio costante di poterla trovare. A questo dolore di non appartenere si somma un’estrema incapacità di significare le esperienze relazionali e rifigurare esperienze emotive proprie e altrui. Se il mondo sociale è una selva pericolosa, molte delle esperienze di solitudine hanno invece il carattere di auto-gratificazione (self-soothing); i passatempi solitari (come l’uso di internet, di videogiochi, ma anche il collezionismo, il binge-reading di libri e fumetti o il binge-watching di serie tv) sono invece vissuti come “antidoto” alle emozioni scomode causate dall’incontro con l’altro, ma a breve termine.
La persona non può che percepire dolorosamente la distanza che si autoimpone come differente rispetto a quella degli altri ed esperire momenti profondamente depressivi.
Secondo Le Breton, che ha scritto un testo straordinario sul tema (Fuggire da Sé: una tentazione contemporanea, 2016):
“In una società in cui predominano flessibilità, urgenza, velocità, concorrenza, efficienza e così via, essere se stessi non è più cosa ovvia, poiché diventa necessario rigenerarsi di continuo, adeguarsi alle circostanze, assumere autonomia, mantenersi all’altezza.”
In questo contesto si comprende il bisogno di alcune persone di “prendere congedo da sé”, rinunciare alla fatica di esistere secondo queste costrizioni: questo è il percorso verso lo stato che il sociologo chiama “biancore”. L’abbandono delle responsabilità: l’individuo post-moderno è deresponsabilizzato. Alla volontà di potenza di nietzscheana memoria si contrappone una “volontà di impotenza”, di lasciarsi andare alla deriva, posando le armi del controllo e della seduzione dell’alterità.
Sulla soglia della vita: sogno e responsabilità
La risposta di Binswanger al dilemma rappresentato dalle persone che “stanno sulla soglia” dell’esistenza, accanto alle possibilità, senza mai prendervi parte, è che l’individuo vive nella apertura emotiva della paura. Paura che può assumere le connotazioni che rimandano alle forme di fobia sociale, ovvero il timore dello sguardo dell’altro, del giudizio altrui, il dolore di non-appartenere, di non-corrispondere. Può essere paura di vedersi mostrate le proprie debolezze, le proprie fragilità, che genera il paradosso del sempre più diffuso non concedersi all’altro per timore del rifiuto. Le relazioni contemporanee sono infatti caratterizzate da sempre maggiore non-definizione, liquidità, tranistorietà, stati cosiddetti di “sospensione”, in cui i membri della coppia non sono nè insieme nè liberi, disimpegnati ma non soli, in cui non si rompe una relazione ma si sparisce sullo sfondo senza alcuna possibilità di condividere un significato, salvo in una solitudine autofererenziale, “probabilmente non gli/le piacevo abbastanza”.
Questo concetto è stato sviscerato da Marta Marabelli, collega esperta nella terapia di coppia e nelle dinamiche relazionali a due, che ha definito l’amore contemporaneo come caratterizzato da stati di “ambiguità stabile” (2018)
Secondo Marabelli, si tende “a mantenere le relazioni non chiare ma a tenerle comunque vive. Apriamo e manteniamo più relazioni in parallelo, così non sperimentiamo mai la condizione di solitudine che rimane sempre un’emozione così difficile da affrontare e non rinunciamo al nostro bisogno di esplorazione. La scelta al contrario rappresenterebbe una privazione di possibilità che per alcuni sarebbe un sacrificio impensabile e per altri un tradimento a se stessi.”
Forse, in ultima analisi, le persone “sulla soglia” rifiutano di concedersi al mondo per paura del rigetto, come fa il corpo umano con un organo estraneo. Sulla soglia ho un mondo di possibilità, ma non ne colgo nessuna, paralizzato dall’eccesso di destini, senza il dolore dell’amputazione che seguirebbe una scelta. La volontà di sparire dalla faccia della terra può cristallizzarsi in una vita al riparo dalla vita stessa, come il seduttore di Kierkegaard, o la giovane Elisewin di Baricco, ci sarà tempo per vivere, ma “domani”. Il tempo di queste persone, fa notare Annalisa Caputo in Amore e sofferenza: tra autenticità e inautenticità (2007) non è quello della dimora, della scelta, del pro-gettare responsabilmente una storia, la propria sotoria, ma quello dell’eterno presente e dell’eterno fanciullo, che attende. Non si getta nè si progetta autenticamente in nulla, non “soggiorna presso niente”: può essere nell’inconsistenza di una vita sfrenata ed eternamente-adolescente o nella solitudine di un appartamento che sembra un appoggio, spoglio ed essenziale, con finestre aperte ma chiuse, con il solo sbocco sul mondo web a risucchiare la vitalità di una giornata che non è più fuori. In questi casi la paura è dominante, la paura di affrontare l’esistenza per quello che essa rappresenta, a volte: non solo gioia e completezza, ma anche fastidio, pesantezza, problematicità, dover-fare; la realtà non è sempre misura dei nostri desideri, ma è anche, e soprattutto, scomodità. Giorni in cui non ci si sente a casa e non si vede l’ora di ritornarvi: momenti di dolore che si affrontano perchè finiranno. L’individuo che si ritira da tutto ciò può farlo con il piglio aspro e rabbioso di una sfida, con la passione neutrale di un anarchico o con la malinconia di chi si sente sempre sconfitto ancora prima di combattere, ma il risultato ha il sapore di una resa, perchè il rapportarsi al mondo presuppone un saper tollerare l’incertezza, la delusione, la caduta degli idoli; la Yourcenar avverte: “se toccate gli idoli, la loro doratura potrebbe restarvi sulle dita.”
Keats la chiamerebbe “capacità negativa”, il saper andare avanti accettando tacitamente l’immenso peso del non sapere, qualcun altro la chiama resilienza, dal latino resalio, non importa quante volte il mare mi rovescerà la barca, io cerco di issarmi e riprendere la navigazione, risalgo. Non sapere se mi rinnoveranno il contratto, se la relazione durerà, se a quarant’anni sarò ancora single, se i miei amici mi rimarranno accanto.
il rinegoziare creativamente l’incertezza è il fulcro della vita, e in alcuni casi le persone perdono la stabilità e vengono assalite da diffidenza, paranoia, pregiudizio, voglia di ritirarsi.
Queste persone sostano in una dimensione onirica dell’esistenza, auto-referenziale, fanciullesca, caratterizzata dal predominio del desiderio, della toti-potenza e dell’autoprotezione, o meglio, della “riduzione dei costi emotivi”, a scapito del mondo della scelta, della responsabilità, dell’imprevedibilità, ma anche del percorso autentico e della mai conclusa scoperta di sé in azione con gli altri.
Elisewin e il mare
“Credevano che sarebbe cresciuta e tutto sarebbe passato. Ma intanto per tutto il palazzo stendevano tappeti perchè, è ovvio, i suoi stessi passi la spaventavano, tappeti bianchi, dappertutto, un colore che non facesse del male, passi senza rumore o colori ciechi.”
Elisewin è una ragazzina dalla voce di velluto, spaventata così tanto dal mondo che non è mai uscita dal castello di suo padre, barone di Carewall, una strana malattia e una terribile sensibilità d’animo la tengono ritratta dal contatto con il mondo: le facce, certi odori, certi colori la feriscono. Tappeti bianchi, e qui risuona il tema del “biancore“, che pur essendo la somma delle radiazioni della luce visibile in questo caso incarna l’assenza di un contatto vitale con il mondo, uno stato di voluta e forse voluttuosa sospensione dai compiti dell’esistenza.
Il padre insiste, deve vivere, deve sposarsi, deve fare figli, è ora che esca dal suo guscio, ma segretamente è complice del suo ritiro: commissiona arazzi dai colori tenui, popolati da esseri umani inoffensivi, struttura i giardini all’italiana con labirinti circolari, senza punti ciechi, in modo che sia impossibile l’imprevisto. Chiama un dottore per sua figlia, ormai giovane donna, e dopo averle parlato le prescrive una cura: il mare.
Oceano Mare (Baricco, 1993) rappresenta una grande metafora della vita -o del percorso psicoterapeutico-, in cui l’avventura coinvolge essenzialmente “figure a margine” dell’esistenza -del mare-; evitanti, fobici o hikikomori, esclusi dal tempo del mondo, che hanno in comune questa profonda incapacità di vivere, questa paura del contatto con l’alterità dell’altro – e del mondo- unitamente -in modo paradossale- ad un fortissimo desiderio di fare esperienza. Perchè sì, essi desiderano vivere, ma temono la vita e fuggono i compiti dell’esistenza, soprattutto lavoro e amore, le qualità essenziali della vita adulta secondo Freud. Recuperare l’accesso al mare come dimensione dell’accettazione del rischio intrinseco del vivere, dell’indefinito, la rassegnazione al turbamento e al dolore come parte essenziale del percorso di crescita è cardine essenziale della narrazione di Baricco in cui fa capolino anche l’accettazione della morte, come sempre, altro lato medaglia del dire di “sì” alla vita, al recupero delle possibilità più autentiche del Sè.
“Mare preferibilmente freddo e fortemente salino, mosso, giacchè l’onda fa parte integrante della cura, per ciò che di temibile porta con sè, tecnicamente da superare e moralmente da dominare, in una sfida paurosa, a ben pensarci, paurosa. Tutto nella certezza -diciamo nella convinzione- che il grande grembo marino possa spezzare l’involucro della malattia, riattivare i canali della vita…”
Miti contemporanei: dove oriente e occidente si incontrano
I giapponesi sembrano soffrire più di altri popoli lo stress da vita moderna, probabilmente a causa del modo in cui hanno impostato l’okami, il “sistema”, che li sprona a essere un esercito infaticabile di api operaie sempre presenti e sempre assenzienti, possibilmente in silenzio.
Sono le regole imposte dal confucianesimo: mettere da parte se stessi e i propri egoismi per raggiungere l’armonia sociale. E infatti sempre più persone, schiacciate dal peso delle proprie responsabilità, decidono di abbandonare tutto e tutti e uscire dalla competizione, ritenendo che gli obiettivi siano irraggiungibili e temendo l’onta del fallimento.
I giapponesi avvertono la pressione sociale fin da bambini, quando iniziano a frequentare le scuole. Il loro sistema scolastico è affine a quello italiano, ma strutturato da ferree regole prestazionali che dettano il destino individuale già precocemente, stimando i risultati scolasitici come predittori della successiva “carriera” già nel ciclo assimilabile alle nostre primarie, in modo estremamente più incisivo rispetto al sistema scolastico occidentale. Chi non frequenta le attività collaterali è un fallito e non farà mai carriera. Ma anche chi va male agli esami è un fallito. E infatti si parla di shiken jigoku, l'”inferno degli esami scolastici”, per lo più mnemonici e nozionistici, che aprono e caratterizzano i vari cicli. Ottenere una valutazione solo sufficiente può significare precludersi un determinato tipo di liceo, che a sua volta si traduce nell’esclusione dalle università più prestigiose, con il rischio di finire a servire in una tavola calda piuttosto che entrare in un importante studio legale. Le persone che non sono parte dell’ingranaggio sono “inutili” o “di troppo”, condannate ad una sorta di evaporazione sociale o addirittura a morire in solitudine, dimenticati da tutti (kodokushi, la “morte solitaria”).
Questo modus vivendi presenta dei punti in comune con il vivere occidentale, dove però il mito predominante è quello del self made man, il professionista flessibile e intraprendente, disinibito, armato di soft skills e fumose “capacità imprenditoriali” che possano garantirgli, con i giusti appoggi, il giusto coraggio, le giuste doti, di “arrivare”. Dove? Ad essere bello, ricco, famoso, una persona che suscita invidia sociale e sfoggia i propri traguardi impietosamente, sui social media. Non per essere utile alla società, come nella cultura collettivista nipponica, ma per spiccare un solitario volo narcisistico, emotivamente costoso, a sè e agli altri.
Atmosfere familari
Non di rado si osservano nuclei famigliari in cui a una forte pressione emotiva al raggiungimento degli obiettivi di vita (“Hai trent’anni e sei ancora a casa”/ “quando ti sposerai? Quando troverai un lavoro?”) può coesistere un atteggiamento collusivo o protettivo, in cui i genitori non fanno nulla per spingere o agevolare nuove aperture esperienziali o spinte costruttive verso l’autodeterminazione. Come il padre di Elisewin, in un certo senso, spingono alla conquista dell’autonomia con parole fredde e pregne di senso comune, per poi costruire stanze “che non fanno male” o labirinti circolari. Questa dinamica, in cui non sono chiari i confini relazionali e in cui c’è ambiguità nell’espressione del bisogno dell’altro –dove finisce il bisogno che ho di te e inizia il bisogno che tu abbia bisogno di me?– è stata denominata co-dipendenza. (Menarini, 1994).
Millon (1991) già evidenziava come i genitori di persone che sviluppano forme di DEP tendono a essere emotivamente lontani, proni al confronto sociale e interessati alla costruzione di un’immagine socialmente inappuntabile (Benjamin et al., 1996). Questa tensione verso forme inautentiche e medie di esistenza, vivere come se ci fosse una perpetua check list nella quale saturare tutte le voci, o una gara in cui il concetto di “essere avanti”, “essere indietro” nel percorso astratto e ideale di vita rispetto agli altri assume quasi una connotazione spaziale è incredibilmente presente nelle storie dei nostri pazienti. Si tratta di un fenomeno complesso, in cui si intrecciano istanze culturali, modi di essere al mondo e atmosfere famigliari caratterizzate da grande eterogeneità.
Primi passi: avere rispetto di un mondo
Nella terapia con la persona evitante o Hikikomori il primo passo fondamentale è quello di stabilire noi stessi una relazione significativa con il paziente, una relazione in cui sperimentare momenti di comodità condivisa. Per fare questo è essenziale che il paziente ci lasci entrare nel suo mondo: una persona appassionata in modo ossessivo ed esclusivo di anime, manga o cultura nerd non potrà mai essere spinto a integrare il suo mondo con esperienze sociali vere e vive se lo avviciniamo con pregiudizio, con atteggiamento derisorio o poco interessato. Occorre trovare un linguaggio comune, dei punti di esperienza condivisa da cui possa sbocciare una genuina reciprocità, e per fare questo il terapeuta non può e non deve essere spaventato, inibito o non motivato a entrare in nuovi mondi, appartenenti alle nuove generazioni: studiare anche noi le passioni dei nostri pazienti, acquisire dimestichezza con i nuovi media -o se già ne abbiamo, meglio così!- senza far pesare il giudizio o far entrare la pesantezza del sentire comune che taglia con l’accetta i divertimenti non considerati “conformi” o infantili.
Questi sono i primi passi: ci attenderà un lavoro sull’esperienza, un lavoro di schiusura in cui nuovi scenari risulteranno appetibili, desiderabili, un lavoro di co-costruzione di una mediazione, di un equilibrio; ma sarà impossibile un’avventura “nel mare” senza aver camminato per un po’ sulla battigia insieme.
– Le Breton, D. (2016) Fuggire da Sé: una tentazione contemporanea. Raffaello Cortina Ed.
– Baricco, A. (1993) Oceano mare, la Feltrinelli.
– Caputo, A. (2008) Amore e sofferenza: tra autenticità e inauteticità. Centro Volontari sofferenza edizioni.
– Binwanger, L. (1992) Tre forme di esistenza mancata, SE srl
– Sarchione, S.,Santacroce, R et al. (2015) Hikikomori: clinical and psychopathological issues, European Psychiatry, Vol. 30, 15.
– Teo, A. R., & Gaw, A. C. (2010). Hikikomori, a Japanese culture-bound syndrome of social withdrawal?: A proposal for DSM-5. The Journal of nervous and mental disease, 198(6), 444-9.
– Dimaggio, G., Semerari A. (a cura di) (2003). I disturbi di personalità: modelli e trattamento. Stati mentali, metarappresentazione, cicli interpersonali. Laterza, Milano.